VIVALDI Le quattro stagioni – Recensione del concerto all’Arena di Verona

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È stata una serata completamente veneta e inedita quella organizzata dalla Fondazione Arena qualche giorno fa: veneto il programma e veneti gli esecutori impegnati in alcune pagine, note e meno note, del panorama musicale italiano.

Una scelta azzardata, come altre in questa stagione solo apparentemente impostata su Gala celebrativi e formali, è stata quella di eseguire in Arena un repertorio che sembrerebbe non appartenerle, ma che ha avuto invece un assai positivo riscontro nei fatti.

Un’Arena sold out, gremita inaspettatamente da un pubblico assai eterogeneo per gusti ed età, ha infatti seguito con entusiasmo una serata il cui traino era la sola musica nella meravigliosa struttura dell’anfiteatro, e questo dovrebbe far riflettere bene chi di dovere sulle preferenze (specie in questo difficile e sembrerebbe interminabile momento) degli appassionati o solo dei curiosi per una programmazione futura attenta ed audace.

Ha aperto il concerto l’Ouverture de Il Mondo alla rovescia del legnarese Antonio Salieri. Di seguito sono stati eseguiti l’Adagio per lungo tempo attribuito al veneziano Tomaso Albinoni (in realtà composto probabilmente da Remo Giazotto nel 1958) e la virtuosistica sonata di Giuseppe Tartini Il Trillo del diavolo per chiudersi poi con Le quattro stagioni da Il cimento dell’armonia e dell’inventione di Antonio Vivaldi.

L’organico orchestrale era quello tradizionale, scelta che, pur musicologicamente poco accettabile, diventa comprensibile analizzando l’operazione nel contesto per il quale è stata studiata.

Al centro dello spazio areniano, sempre ben disegnato e cesellato dal gioco di luci di Paolo Mazzon, l’orchestra e due artisti completamente opposti: la pacata misura di Alvise Casellati ed il fiammeggiante entusiasmo di Giovanni Andrea Zanon che, con il loro dinamico contrasto, hanno contribuito a donare alla serata la giusta energia.

Casellati ha diretto con misura, ottenendo un suono omogeneo che rimandava in gradinata la giusta armonia ma nei brani in cui era presente il violino le dinamiche cambiavano prepotentemente, scosse dalla forza e l’impetuosità di un talento indiscusso peraltro potenziato, per l’occasione, da un Antonio Stradivari del 1706.

Zanon è ormai una delle certezze del nostro panorama musicale e non soltanto per il suo virtuosismo (peraltro mai disgiunto da una passione graffiante e mai sterile) ma anche per l’interpretazione ed il fraseggio che, alternando volumi e sonorità, rendono il suo strumento quasi magico, con un suono che vibra a metà tra cielo e terra e che naturalmente arriva prepotente all’animo.

In continuo gioco con il Direttore la musica sembra fluire così con tutta naturalezza attraverso l’energia grintosa di Zanon, perfettamente a suo agio nella cavea areniana.

Non c’è da stupirsi dunque che il pubblico abbia risposto con altrettanta energia e sia stato ricambiato dagli artisti con ben sette bis: Bach Adagio dalla Prima sonata per violino solo, Finale dell’Adagio di Albinoni, Estate (Presto), Paganini Capriccio 24Inverno (Allegro non molto), Thais Meditation ed ancora Estate (Presto).

Il concerto si è chiuso con il pubblico in piedi ed il giovane violinista che correva a ringraziare il pubblico facendo il giro d’onore come nelle gare di atletica. Una bella visione, di compattezza, coesione e semplicità … e davvero nessuno lo avrebbe immaginato.

La recensione si riferisce alla serata del 13 agosto 2020.

Silvia Campana

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