Intervista per Vogue

Giovanni Andrea Zanon - Vioinist

Text by Anna Siccardi

Photo by Lorenzo Bringheli

***Fashion editor Sarah Grittini ***

Quando si pensa ai cosiddetti bambini prodigio della storia, si ha l’impressione di varcare il labile confine tra realtà e leggenda. E quelli che sono indubbiamente doni di natura, come precocità e facilità di apprendimento, in questi rari individui assumono un che di sovrannaturale, tanto da farci domandare dove sia il trucco e se sia poi tutto vero ciò che si narra di quelle infanzie stupefacenti. Conoscere Giovanni Andrea Zanon dissolve ogni dubbio: i prodigi esistono, sono fatti di carne e ossa.

Classe 1998, un elenco impressionante di premi e riconoscimenti, Zanon racconta la sua storia con il candore di un petit prin- ce che vede il mondo con lenti solo sue – a conferma che è proprio la po- tenza della visione (la Weltanschauung di romantica memoria) a contraddistinguere l’artista. «Non ho un ricordo senza il violino», dice. E lì per lì potrebbe anche sembrare ango- sciante, ma poi racconta del padre, appassionato di musica, che gli fa costruire un violino in miniatura perché possa iniziare a suonare a due anni; della sorella Beatrice (oggi concertista) con cui ingaggia le prime sfide musicali; di quando, la sera, i genitori mettevano da parte le ninne nanne per far risuonare l’opera. Entrato al conservatorio di Padova a quattro anni, diventando così il più giovane allievo della storia delle istituzioni musicali italiane, a 14 anni consegue il diploma di laurea del più importante concorso per giovani violinisti, il Wieniawski-Lipinski in Polonia, e nel 2013 debutta alla Carnegie Hall di New York.

Uno degli incontri fondamentali per la sua crescita è stato con Zubin Mehta, che l’ha spinto a tentare l’audizione per la Manhattan School of Music di New York per studiare con Pinchas Zukerman, vate del violino contempora- neo. Tremila concorrenti, tutti dai vent’anni in su. Zanon, allora quindicenne, prova per provare, ma arriva primo. «E adesso cosa faccio?», chiede il padre di Giovannia Paolo Gavazzeni (ai tempi direttore artistico dell’Arena di Verona e già allora suo mentore), che provvidenzialmente lo incoraggia. Inizia così la stagione newyorchese, che per Zanon è venata di malinconia, com’è comprensibile per un quindicenne che lascia la provincia veneta e approda oltre oceano armato solo di violino e di un inglese incerto. «Ma gli italiani all’estero si aiutano», ricorda, «e io sono stato adottato da una famiglia di ristoratori vicino a casa».

L’italianità è un tema forte, e lo è senz’altro nel panora- ma artistico internazionale. «Ci sono violinisti asiatici straordinari, tecnicamente ineccepibili. Ma quando a suonare è un italiano, c’è un’intera tradizione che suona con lui». Questo è il modo sincero e paradossalmente umile con cui Zanon sente di portare sulle spalle una grande storia, di esserne interprete e responsabile. Ma come si coniuga la responsabilità del talento con il sacrificio quotidiano e, ancor di più, con questa leggerezza e allegria che Giovanni emana? «Più che di sacrificio, parlerei di conquiste. All’inizio, quando imparavo le prime note, i miei mi premiavano regalandomi una gallina (arrivò ad averne un centinaio, nda). Poi, quando chiesi un cane, dovetti imparare la prima parte del concerto di Sibelius. Ci misi due anni, dai 7 ai 9. Oggi ho due labrador». In partenza per Berlino, dove studierà alla Hochschule Hanns Eisler für Musik, Giovanni Zanon si esibirà il 24 e 26 marzo all’Auditorium laVerdi di Milano.

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